Salute e sanità

Il valore umano nella relazione medico-paziente

Progettare una tecnologia a servizio della cura e della ricerca. 

I punti salienti di un’intervista al dott. Armando Sarti

di Viola Davini | 15 01 2025

Di cosa parliamo in questo articolo?

L’intervista ad Armando Sarti, medico e specialista in cardiologia, pediatria, anestesia e rianimazione, mette in luce l’importanza di un approccio umano e personalizzato nella pratica medica. Ex primario dell’ospedale Santa Maria Nuova, Sarti ha dedicato parte della sua carriera alla ricerca sulla medicina narrativa e sulla terapia intensiva aperta, esplorando temi fondamentali per l’umanizzazione delle cure. Nell’articolo emerge chiaramente l’importanza di un approccio umano e personalizzato nella medicina,che metta al centro il/la paziente anziché la malattia. Si approfondiscono temi come la medicina narrative, il ruolo della comunicazione istituzionale e le tecnologie digitali. L’intervista si conclude con un approfondimento sul valore della nutrizione nella prevenzione e l’opportunità di condividere risorse scientifiche per educare e sensibilizzare professionisti/e della sanità ma anche la cittadinanza.

Ambito di Intervento

Cultura e Società

Se vogliamo che la complessità sia un valore e non una fonte di crescenti problemi, è necessario elaborare una visione e delle pratiche che ridefiniscano il rapporto fra scientia e usus.

Oggi si parla sempre più spesso di umanizzazione delle cure, come se le attuali relazioni di cura fossero ridotte a processi automatizzati e standardizzati, seguendo una logica di ottimizzazione dei costi e della produzione. Tuttavia, alcuni studi, soprattutto anglosassoni, iniziano a concentrarsi su concetti che mettono al centro il valore della cura e il rapporto umano. Nella sua esperienza professionale, quale crede sia il valore di una prospettiva incentrata sul paziente e non sulla malattia? Quali possono essere le ricadute sull’organizzazione della medicina e, più in generale, sul sistema sanitario?

Trovo paradossale parlare di “umanizzazione delle cure”, quasi a voler suggerire che esistano cure che non siano umane. La medicina, fin dalle sue origini, è nata come un’arte profondamente umana, fondata sull’ascolto della persona. Pensiamo a Ippocrate: all’epoca, senza le tecnologie di oggi, la cura si basava proprio sull’osservazione e sulla relazione con il paziente. Oggi, questa dimensione sembra essersi persa. Alcuni studi mostrano come durante una visita un medico interrompa il paziente dopo appena dieci secondi, come se avesse già capito tutto. Questo atteggiamento, spesso dettato dalla fretta o dall’arroganza, non porta ai migliori risultati. Un approccio umano, al contrario, richiede tempo e ascolto. 

Per me, tutto diventa più chiaro se ci poniamo una domanda semplice: a chi appartiene l’ospedale? La risposta dovrebbe essere ovvia: l’ospedale è la casa della persona malata. Questo significa che il paziente deve essere al centro di tutto, mentre medici e infermieri, pur con le loro importanti responsabilità, sono ospiti in questa “casa”. È un cambio di prospettiva fondamentale, che influenza il modo in cui organizziamo le cure.

Da questa impostazione deriva una regola chiara: il paziente ha il diritto di partecipare alle decisioni sul proprio percorso diagnostico e terapeutico. Naturalmente, queste decisioni devono essere basate sulle conoscenze degli specialisti, ma sempre personalizzate sulle esigenze del paziente. Non possiamo ridurre la cura a questionari standard o linee guida derivanti da studi randomizzati – che, pur utili, non possono applicarsi indistintamente a ogni individuo. Non è la malattia in astratto a dover essere considerata, ma il malato con quella specifica malattia.

Un approccio centrato sul paziente comporta anche il rispetto del suo diritto di essere correttamente informato e di scegliere tra le opzioni disponibili. Questa impostazione porta con sé il concetto di medicina narrativa: dare spazio alla storia del paziente. Le storie hanno un valore intrinseco e diventano una fonte preziosa di informazioni per personalizzare le cure. Attraverso strumenti semplici, come interviste o diari dove i pazienti, i familiari e i caregiver possono annotare pensieri e riflessioni, emergono dettagli fondamentali. Non si tratta solo di “dare voce” a chi è spesso trascurato negli ospedali, ma di raccogliere informazioni essenziali per organizzare meglio le cure.

Per esempio, il concetto di rianimazione aperta è nato da questa filosofia. Durante la mia carriera, ho sempre lavorato per consentire ai familiari di avere accesso continuo ai pazienti, anche in terapia intensiva, salvo rare esigenze specifiche. Questo approccio inizialmente ha incontrato resistenze, soprattutto tra il personale infermieristico, comprensibili dato il carico di responsabilità. Tuttavia, una volta implementato, ha dimostrato i suoi enormi benefici.

Un altro esempio riguarda le piccole barriere inutili, come l’obbligo di indossare sovrascarpe in reparto, che spesso non hanno alcun effetto reale sulla prevenzione delle infezioni. Eliminare questi ostacoli aiuta a rendere l’ospedale un luogo più accogliente, rispettoso dei desideri del paziente, come la presenza di animali domestici o di oggetti personali che aiutino a sentirsi “a casa”.

Alla base di tutto c’è il tempo: tempo per ascoltare. L’ascolto empatico, anche attraverso il silenzio partecipe, permette al paziente di aprirsi e condividere i propri bisogni. Questo approccio ha portato a risultati straordinari, anche nella riorganizzazione degli spazi, come l’introduzione di box in terapia intensiva con vetri per la comunicazione visiva o microfoni per favorire l’interazione. Tutto questo senza compromettere la sicurezza, grazie all’uso di monitor e telecamere.

Infine, è fondamentale evitare decisioni che il paziente potrebbe poi rimpiangere, come interventi invasivi non pienamente compresi. Ogni persona, correttamente informata, deve avere il diritto di decidere cosa desidera o non desidera per sé. Questo approccio, basato sulla collaborazione tra pazienti e sanitari, non solo migliora l’esperienza di cura, ma crea una vera complicità terapeutica.

La collaborazione tra paziente e sanitari – medici e infermieri – permette di decidere insieme quale sia la strada migliore da intraprendere.
L’ho scritto anche in un mio libro: una delle situazioni più terribili è quando un paziente, a posteriori, dice “Se l’avessi saputo, non avrei mai accettato questo trattamento”. Purtroppo, situazioni simili possono cambiare la vita di una persona in modo irreversibile, o quasi.
Pensiamo a interventi come le tracheotomie: scelte complesse, che richiedono un dialogo chiaro e trasparente con il paziente, affinché possa decidere consapevolmente.

Ogni persona deve sentirsi pienamente supportata, mai abbandonata, e soprattutto deve avere il diritto di decidere cosa vuole o non vuole per sé, dopo essere stata adeguatamente informata. Questo è il cuore di un approccio umano alle cure: ascoltare il paziente, considerare la sua storia e offrirgli non solo cure, ma il rispetto della sua autonomia.

Ci può raccontare come sono state raccolte le storie dei pazienti e delle loro famiglie e come queste sono state integrate nel percorso di cura? 

La raccolta delle storie dei pazienti avveniva su due livelli distinti ma complementari.

Il primo livello era di carattere generale e consisteva nell’attività quotidiana di ascolto svolta da medici e infermieri. Questo tipo di ascolto faceva parte della normale interazione con il paziente, un momento indispensabile per costruire una relazione basata sulla fiducia e per raccogliere informazioni fondamentali. Parlare, osservare, e ascoltare attivamente sono compiti essenziali che ogni operatore sanitario dovrebbe integrare nella propria pratica professionale.

Il secondo livello era invece più strutturato e metodico. In questo caso, una sociologa collaborava direttamente con i pazienti, quando le loro condizioni lo consentivano, o con i familiari, anche in situazioni in cui i pazienti non erano più presenti. Le interviste venivano condotte in modo privato, seguendo un set di domande ben definito, e successivamente registrate e trascritte integralmente, senza alcuna modifica. Questo approccio ha consentito di raccogliere una mole significativa di dati, ricchi di dettagli preziosi per comprendere le esperienze e i bisogni individuali.

Oltre alle interviste, abbiamo messo a disposizione uno spazio dove pazienti, caregiver e familiari potevano esprimere liberamente i propri pensieri, riflessioni, dubbi e desideri. Questa opportunità di condivisione si inseriva nell’obiettivo di creare un ambiente che fosse il più possibile accogliente, un luogo dove il paziente potesse sentirsi “a casa”. Anche in terapia intensiva, si è lavorato per rendere lo spazio meno alienante e più umano: abbiamo introdotto la luce naturale, reso gli ambienti più familiari, cercando di allontanarsi dall’immagine di una “strana astronave” piena di macchinari.

Per quanto riguarda la questione del tempo, è un aspetto che viene spesso percepito come un ostacolo, ma in realtà non lo è necessariamente. È vero che una formazione specifica può essere di grande aiuto, ma è l’approccio stesso che contribuisce a formare il personale. Molto spesso, infermieri e medici temono di essere troppo osservati o di venire giudicati per il loro operato. Tuttavia, queste paure si dissolvono nel momento in cui ricevono il riconoscimento dei pazienti e dei familiari per il lavoro svolto. Questo tipo di feedback ha un valore straordinario, non solo per rafforzare la motivazione individuale, ma anche per prevenire il burnout.

Un altro elemento cruciale è stato il coinvolgimento continuo dei familiari nel percorso di cura. Una comunicazione aperta e costante permetteva di tenerli informati, rendendoli parte integrante del processo decisionale. Questo approccio evitava situazioni tipiche negli ospedali, come quella dei familiari costretti a rincorrere i medici per ottenere informazioni. Non era più necessario prevedere un’ora specifica per il “rilascio delle informazioni”, che spesso si riduce a comunicazioni frettolose o incomplete.

Abbiamo introdotto un briefing mattutino tra medici e infermieri, della durata di circa un’ora o più, per discutere a fondo delle condizioni cliniche dei pazienti e identificare i loro bisogni. Durante questi incontri ci poniamo una domanda chiave: “Cosa possiamo fare di più per questa persona?”. Questa riflessione costante ci consentiva di rispondere a esigenze specifiche, come il desiderio di un paziente di vedere il proprio cane o la necessità di un giorno di completo isolamento. Ogni richiesta veniva rispettata, quando possibile, perché faceva parte di un percorso di cura personalizzato.

L’aspetto più importante è proprio questo: riconoscere e valorizzare la specificità di ogni storia e di ogni paziente. Non si tratta di standardizzare le cure, ma di personalizzarle, rispettando le particolarità di ciascun individuo. Questo approccio migliora non solo l’esperienza del paziente, ma anche la relazione medico-paziente, con evidenti benefici sulla qualità complessiva delle cure erogate.

Che relazione c’è tra questo tipo di esperienze e la comunicazione istituzionale – mi riferisco al ruolo dell’URP, Ufficio Comunicazione etc.? 

Noi abbiamo lavorato per analizzare le domande che arrivavano all’URP, cercando di creare un collegamento diretto con il personale dei reparti. L’idea era che chi lavora sul campo sapesse quali sono i principali problemi o richieste dei cittadini. Spesso, però, l’URP viene percepito solo come un ufficio reclami, che di per sé è una fonte di potenziale conflitto. Questo accade perché la responsabilità giuridica e professionale dei medici rende queste situazioni particolarmente delicate.

Un altro problema è l’accessibilità. Spesso è difficile, se non impossibile, trovare un numero o un contatto diretto per risolvere una questione rapidamente. Questo crea una barriera, un disincentivo alla comunicazione diretta, che invece potrebbe prevenire problemi più gravi.

Per quanto riguarda la mia esperienza, ogni anno mandavo un report dettagliato all’URP su questi aspetti. Posso dire, con un pizzico d’orgoglio, che nei dieci anni in cui ho lavorato a Santa Maria Nuova, dal 2007 al 2017, non c’è stato un solo contenzioso medico-legale. Non si tratta solo di evitare reclami o problemi legali, ma di costruire un rapporto di fiducia con i pazienti e le loro famiglie. Questo approccio portava anche a relazioni durature: molti familiari tornavano a trovarci per Natale, portando regali o semplicemente per salutare. Era il segno che il reparto era percepito come un luogo accogliente e umano.

La comunicazione diretta e continua ha ridotto significativamente la necessità di gestire reclami formali. Per esempio, ricordo un caso in cui un parente lamentava che un infermiere gli avesse risposto male. Ho subito verificato la situazione, scoprendo che il problema era nato più dall’agitazione del familiare che dall’atteggiamento dell’infermiere. Una volta chiarito, il reclamo è scomparso.

Se invece queste questioni arrivano all’URP, il processo diventa più complicato: i responsabili devono redigere note dettagliate, che vengono poi inoltrate al paziente. Ma a quel punto, il tempo trascorso spesso rende tutto meno rilevante, o addirittura il paziente ha già scelto di procedere per vie legali. È evidente che la comunicazione diretta è molto più efficace di quella mediata da procedure burocratiche.

Per evitare che il rapporto medico-paziente rimanga asimmetrico – con il medico che detiene tutte le conoscenze e il paziente che si sente un semplice oggetto di decisioni – è fondamentale creare una comunicazione chiara e simmetrica. Questo significa spiegare il piano diagnostico e terapeutico in modo comprensibile, coinvolgendo il paziente nelle decisioni.

La comunicazione diretta non può essere sostituita da numeri di telefono o sistemi automatizzati. Nonostante i progressi tecnologici, il valore umano del dialogo e del contatto personale è insostituibile. Un approccio che integra empatia e ascolto attivo non solo migliora la qualità delle cure, ma previene anche tensioni e conflitti.

Con il nostro Master in Comunicazione Medico-Scientifica e dei Servizi Sanitari ci occupiamo proprio di questo: progettare sistemi di e-health dal “tocco umano”, perché la relazione medico-paziente è alla base della cura. Cosa ne pensa delle tecnologie digitali applicate alla sanità?

Oggi si parla molto di “intelligenza artificiale” e delle sue possibili applicazioni anche nella comunicazione medico-paziente. Tuttavia, sebbene i sistemi automatizzati possano essere utili per gestire informazioni tecniche, non possono mai sostituire l’efficacia del contatto umano. Pensiamo, ad esempio, a un risponditore automatico che cerca di risolvere un problema: non potrà mai produrre lo stesso effetto di una persona che ascolta e interagisce direttamente con il paziente. Sono fermamente convinto che nessuna tecnologia potrà replicare l’empatia e la capacità di cogliere le sfumature individuali che caratterizzano il rapporto umano.  

Affinché un sistema di intelligenza artificiale possa essere davvero efficace in questo contesto, dovrebbe essere alimentato da un’enorme quantità di dati: non solo dettagli clinici, ma anche informazioni più profonde sulla persona, il suo contesto, le sue emozioni. Tuttavia, questo tipo di conoscenza è complesso da codificare e, di fatto, molto difficile da percorrere. Una cartella clinica ben compilata non sarà mai sufficiente a costruire un rapporto con il paziente; ciò che serve è un’interazione reale, fatta anche di gesti semplici e spontanei, come stringere una mano o guardare il paziente negli occhi.  

Progetto

Viareggio Futura

Un progetto di ricerca-azione partecipata – condotto secondo il paradigma della Comunicazione Generativa – per costruire un modello di sviluppo durevole e sostenibile della Città di Viareggio, facendo emergere i tratti distintivi e valoriali che costituiscono l’identità profonda della Città, per ridefinire in maniera significativa il modello urbano e di sviluppo territoriale su cui si basano Viareggio e i suoi luoghi.

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Questo tema mi sta particolarmente a cuore, pensando alla mia esperienza in terapia intensiva. In quel contesto, la tecnologia è indispensabile e spesso salva vite, ma non deve mai sostituire il rapporto diretto tra medico e paziente. Quando, ad esempio, utilizzavo l’ecocardiografia al letto del malato, quel gesto – appoggiare la sonda sul torace, dialogare e spiegare – non era solo tecnico. Era un modo per far percepire al paziente che mi stavo prendendo cura di lui, non limitandomi a osservare i dati su uno schermo.  

Purtroppo, oggi noto che molti giovani medici, appena entrano in una stanza, si concentrano immediatamente sul monitor o sulla cartella clinica, spesso senza nemmeno salutare il paziente. Questo può sembrare un dettaglio trascurabile, ma non lo è: il paziente percepisce immediatamente l’attenzione che gli viene riservata. Ignorare il paziente, non salutarlo o non guardarlo negli occhi significa perdere una parte importante delle informazioni, quelle che derivano dall’interazione diretta e che non possono essere sostituite da strumenti tecnologici.  

Essere medico non significa solo padroneggiare competenze tecniche; significa anche saper instaurare una relazione umana con il paziente. Non esiste una formula universale per questo: ogni relazione è unica e dipende dalla sensibilità, dall’esperienza e dall’attenzione del professionista. È una competenza che si costruisce nel tempo, imparando a bilanciare il sapere tecnico con il rispetto umano.  

Per quanto la tecnologia possa evolversi, non potrà mai sostituire la componente umana. Spesso, anche il modo in cui ci avviciniamo al paziente può fare la differenza tra un rapporto sterile e uno realmente empatico. Questo, a mio avviso, è il cuore della medicina: unire scienza e umanità per prendersi cura non solo della malattia, ma anche della persona che ne è affetta.

Conclusioni

L’intervista offre la prospettiva di un professionista che ha maturato una lunga esperienza sia nella pratica clinica sia in ruoli manageriali. Sottolinea come la comunicazione autentica scaturisca dalla relazione tra medico e paziente, radicata nell’ascolto e la relazione. Per valorizzare questa relazione, il sistema organizzativo deve essere progettato in modo da integrare, in ogni azione quotidiana – che si tratti di una visita, un ricovero o una semplice chiamata al medico – un atto di partecipazione e di co-costruzione di valore condiviso.

Il rischio principale nell’adozione delle tecnologie, e in particolare dell’Intelligenza Artificiale, è di cadere nella tentazione di standardizzare i processi, trasformando medici e pazienti in semplici ingranaggi di un sistema automatizzato. Le tecnologie non devono sostituire l’interazione umana, bensì potenziarla, liberando tempo e risorse per favorire un approccio più empatico e creativo alla cura.

In quest’ottica, il lavoro del Centro Ricerche sAu e del Master in Comunicazione Medico-Scientifica e dei Servizi Sanitari si concentra sullo sviluppo di progetti che allenano le Intelligenze Artificiali non a simulare l’essere umano, ma a ottimizzare i processi operativi. L’obiettivo è creare strumenti che restituiscano al medico e al paziente il tempo e lo spazio per costruire una relazione di valore, potenziando il lato umano della medicina e promuovendo un futuro in cui tecnologia e umanità collaborano in armonia per migliorare il sistema di cura.

Bibliografia/Sitografia

  • Malfer, L., Dorigatti, M. (a cura di) (2022). Politiche familiari, coesione sociale e benessere. VITREND
  • Malfer, L. (a cura di) (2019). New public family management. Welfare generativo, family mainstreaming, networking e partnership. Franco Angeli
  • Malfer, L., Prandini, R. (a cura di) (2018). Welfare aziendale e benessere della persona. Primo rapporto sulla politica nazionale «Family Audit». Franco Angeli
  • Malfer, L., Siniscalchi, E. (a cura di) (2016). Festival della famiglia di Trento. L’ecosistema vita e lavoro. Occupazione femminile e natalità, benessere e crescita economica. Franco Angeli
  • Malfer, L. (a cura di) (2013). Family Audit: la nuova frontiera del noi. Linee guida per la certificazione aziendale. Franco Angeli
  • Malfer, L. (2011). Fattore 4. Uno slogan per la sostenibilità del welfare. Franco Angeli
  • Provincia Autonoma di Trento (2009). Libro Bianco sulle politiche familiari e per la natalitàlink

Autore

Viola Davini

Ph.D., Ricercatrice e socia fondatrice del Centro Ricerche “scientia Atque usus” per la Comunicazione Generativa ETS

Intervistato

Armando Sarti

Research and Family Development Manager presso la Fondazione Bruno Kessler, già Dirigente dell’Agenzia per la famiglia della Provincia Autonoma di Trento.