La via partecipativa per garantire salute e sicurezza ai lavoratori

Cultura e Società

La via partecipativa per garantire salute e sicurezza ai lavoratori

Intervista a Gianni Marchetto

di Marco Sbardella | 29 11 2024

Di cosa parliamo in questo articolo? 

L’intervista a Gianni Marchetto, esponente del movimento sindacale torinese, ripercorre decenni di lotte e iniziative sindacali volte a migliorare le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori, focalizzandosi sull’esperienza della FIAT e del movimento operaio torinese. Marchetto riflette sul ruolo delle istituzioni, dei rappresentanti sindacali e sulla necessità di un approccio partecipativo che coinvolga attivamente i lavoratori. L’intervista affronta anche sfide storiche come la perdita di unità del movimento sindacale negli anni ’80 e analizza esperimenti pionieristici, come il progetto partecipativo condotto nel quartiere San Donato a Torino, progettato e voluto dal prof. Ivar Oddone (il padre dell’Ambiente di Lavoro in Italia). Al centro vi è l’importanza di un sapere pratico e condiviso, spesso trascurato, che potrebbe ancora offrire soluzioni innovative per la sicurezza e il benessere nei luoghi di lavoro.

Ambito di Intervento

Cultura e Società

Il Centro Ricerche sAu collabora da anni con scuole, università e istituzioni, lavorando sull’educazione alla cittadinanza attiva e consapevole per le giovani generazioni.

Nei decenni di impegno sindacale hai raccolto e organizzato un archivio di grande rilevanza sui temi della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Vorrei iniziare chiedendoti di parlarci di questo archivio.

Questa è una storia lunga, che risale al 1958, con la S.I.A. (Società Italiana Amianto). Molti lavoratori di allora sono purtroppo scomparsi, portati via dall’amianto che si è annidato nei loro polmoni, causando asbestosi e mesotelioma pleurico. Da sempre mi sono impegnato per migliorare le condizioni di salute e sicurezza degli operai, dentro e fuori le fabbriche, convinto che l’integrità psicofisica dei lavoratori sia un bene primario.

Un tempo ero convinto, e in fondo lo sono ancora, di essere stato uno sconfitto, sia nel sindacato che nel Partito Comunista. Ma, nonostante spesso mi sia trovato in minoranza, il lavoro svolto con decine di colleghi nelle fabbriche non è stato vano. Dopo un’indagine durata anni su 605 aziende della zona Ovest di Torino, ho potuto constatare che molte realtà sono cambiate in meglio, grazie agli investimenti tecnologici e all’impegno dei rappresentanti sindacali.

Oltre a queste aziende, il mio archivio contiene informazioni su 3.500 imprese piemontesi, con documentazione fotografica dei luoghi di lavoro, oggi perlopiù bonificati. Questi dati mostrano come i fattori di rischio lavorativo definiti da Ivar Oddone – legati a condizioni ambientali, sostanze nocive, attività fisica e stress mentale – si siano ridotti significativamente. Oddone, infatti, distingueva quattro gruppi di fattori di rischio: il primo riguarda elementi presenti anche negli ambienti domestici (luce, rumore, temperatura, umidità e ventilazione); il secondo fattori specifici degli ambienti di lavoro come polveri e gas (amianto, silice, fumi di diversa natura); il terzo è rappresentato dall’attività fisica; e il quarto racchiude tutte le condizioni che possono causare stanchezza mentale, come monotonia e ritmi eccessivi, sovraccarico e sottoimpiego mentale.

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“La salute e il lavoro”, una presentazione realizzata da Gianni Marchetto che ripercorre i suoi decenni di impegno e militanza per la salute e la sicurezza dei lavoratori 

Oggi molte aziende sono radicalmente cambiate, in meglio, rispetto al passato, anche grazie all’azione costante e risoluta dei rappresentanti sindacali in fabbrica, che non hanno smesso di affrontare i datori di lavoro per far valere il diritto alla salute.

In effetti, i datori di lavoro, specie nelle aziende di maggior successo, hanno investito risorse ingenti per migliorare le condizioni lavorative, soprattutto a partire dagli anni ’70 e ’80. Ma non dimentichiamo che spesso il vero progresso è avvenuto grazie alle battaglie quotidiane sul campo come quella che io e molti operai abbiamo portato avanti nel tempo. 

Cosa diversa è invece la situazione nelle aziende con meno di 50 addetti (dove storicamente è quasi assente ogni rappresentanza sindacale), dove per la povertà delle produzioni e del loro valore aggiunto, la maggioranza non ha fatto grandi bonifiche ambientali e sono ancora presenti rischi tradizionali.

C’è stato un momento cruciale, che rappresenta un punto di svolta per il movimento operaio italiano, oltre che per i lavoratori della FIAT. Mi riferisco al famoso corteo dei “colletti bianchi” della FIAT. Cosa si è incrinato in quell’occasione?

Si è spezzata l’unità del movimento operaio. Nel 1986, con la disputa sulla scala mobile, il sistema che fino ad allora aveva unito CGIL, CISL e UIL si è frantumato. Ogni confederazione ha cominciato a fare un bilancio degli anni ’70, ma perdendo di vista le condizioni concrete dei lavoratori. Così, il movimento ha cominciato a delegare al governo il cambiamento sociale, anziché promuoverlo autonomamente.

La CGIL, in particolare, non ha saputo (molte volte non conoscendolo) valorizzare pienamente l’impegno dei suoi delegati nelle fabbriche, accumulato in oltre dieci anni. Era più interessata a coltivare rapporti politici nei “palazzi” che a sostenere il lavoro di contrattazione quotidiana svolto dai rappresentanti sindacali, come abbiamo scritto già in quegli anni io e molti altri colleghi.

Nella seconda metà degli anni ’70, Ivar Oddone, insieme a me e a pochi altri colleghi, cercò di estendere il modello di coinvolgimento dei lavoratori che avevamo sperimentato nei luoghi di lavoro, al quartiere San Donato di Torino, un’area con 64.000 abitanti. Lì, conducemmo indagini dettagliate sui rischi lavorativi nelle aziende del quartiere e sui rischi ambientali presenti nella comunità stessa.

Il progetto che ne emerse era molto avanzato e unico in Italia a quell’epoca. Quando lo presentammo, però, alcuni medici iscritti al Partito Comunista espressero dubbi sulla sua validità. Giovanni Berlinguer, nelle sue conclusioni, affermò di condividere il piano teorico del progetto, ma aggiunse che era tempo di “occuparci delle cose concrete”, proponendo soluzioni come l’aumento dei portali di accesso ai servizi (il che significava un aumento delle code!).

La nostra ricerca per i Territori in salute

Documentare per attualizzare i valori e farne un Bene Comune

Il progetto nasce dalla convinzione che il patrimonio culturale e storico debba essere valorizzato attraverso un confronto costante con le sfide del presente e una visione progettuale orientata alla creazione di nuove prospettive.

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Il problema era che noi volevamo realizzare qualcosa di più partecipativo. Ricordo un incontro alla Camera del Lavoro, una simulazione in cui alcuni compagni si vestivano da infermieri per spiegare come monitorare la salute dei bambini del quartiere, o da caregiver per insegnare agli anziani a mantenersi attivi. Era una socializzazione delle scoperte scientifiche e dei principi di sicurezza, rivolta sia ai lavoratori sia ai cittadini.

Ma molti nel PCI e tra i medici sostenevano una visione tecnocratica, scettici verso il nostro approccio partecipativo: “Che senso ha coinvolgere persone che non comprendono il tema?” Questo è stato l’errore principale della sinistra, incluso del PCI, che sottovalutava la partecipazione popolare.

Quali elementi di quell’esperienza passata possono essere ripresi, magari aggiornandoli, per migliorare il futuro? Su cosa dovremmo riflettere e guardare indietro per costruire qualcosa di significativo?

La risposta è semplice, anche se spesso la semplicità è la cosa più complessa da afferrare: è una questione di fiducia negli esseri umani. Si tratta di riconoscere che le persone non sono vasi vuoti da riempire con nozioni tecniche o scientifiche. Non si tratta di sostituire le conoscenze tecniche, ma di integrarle, considerando l’esperienza e il “saper fare” delle persone come un valore prezioso da recuperare e valorizzare.

È per questo che ho preparato la presentazione che si trova allegata a questo articolo, per cercare di trasmettere un’esperienza concreta che ho vissuto, basata sulle mie osservazioni, ovviamente soggettive. Mi è stato detto che questa esperienza è stata condivisa da decine di persone in Italia, ma oggi è quasi completamente dimenticata.

Quello che dici risuona molto con il nostro approccio. Anche nel nostro centro di ricerca, che abbiamo chiamato “Scientia atque Usus”, siamo convinti che non ci sia una divisione rigida tra chi detiene il sapere e chi applica quel sapere. La scienza ha bisogno dell’esperienza pratica, dell’Usus. E all’interno di questo “uso” c’è una grande quantità di conoscenza, una saggezza pratica spesso implicita e non formalizzata, che è fondamentale e non dovrebbe andare perduta, giusto?

Esatto. È la vecchia cultura popolare, un patrimonio che non possiamo ignorare. Negli ultimi decenni, infatti, mi sono anche specializzato nel condurre indagini per recuperare e valorizzare questo tipo di conoscenza.

In questo senso, serve una scienza (per dirla con Taylor) che non si limiti a sovrapporsi alla pratica, ma che sia capace di recuperare e integrare l’esperienza lavorativa, attribuendole un valore pari a quello della conoscenza accademica. Questa non è un’alternativa, ma un complemento alla conoscenza scientifica che si trova nei laboratori e nelle università. Purtroppo, nessuno ha mai perseguito questo approccio in modo sistematico.

Questo aspetto è centrale nel lavoro di Ivar Oddone, come anche Fausto Bertinotti ha riconosciuto nelle sue riflessioni. Oddone è stato fondamentale: le sue dispense sono state tradotte in molte lingue, incluso il giapponese. Ho avuto modo di presentare queste dispense anche in Brasile, dove ho incontrato Lula, allora leader dei sindacati brasiliani, che comprese l’importanza di quel lavoro.

Noi italiani, da questo punto di vista, siamo stati dei pionieri, una sorta di “diamante grezzo” dell’innovazione sociale. E sono d’accordo con Fausto, che ha sempre guardato con curiosità e interesse al nostro lavoro. Io e altri compagni, infatti, venivamo spesso considerati quelli “fuori dal coro”, non tanto coinvolti nei cortei e nel rullar di tamburi, ma piuttosto impegnati a dialogare con i tecnici, cercando (magari rubando) di costruire un ponte tra sapere tecnico e esperienza dei lavoratori.

Ricordi la famosa foto davanti alla porta 5 di Mirafiori? Quella dell’ottobre 1980. In quella foto ci sono tre figure centrali. Il primo è Angela Azzolina, delegato sindacale e segretario del PCI turno B alla carrozzeria di Mirafiori. Accanto a lui c’è Liberato Noccia, un compagno eccezionale, stimato leader di Avanguardia operaia e anche lui delegato della lastroferratura della carrozzeria di Mirafiori. Il terzo è Enrico Berlinguer, a cui viene chiesto: “Ma se i lavoratori decidessero di occupare la fabbrica, cosa fareste?”

Io avrei voluto fare un’altra domanda: “E se occupassimo la fabbrica per portare avanti la produzione completa delle auto, in che modo il PCI ci sosterrebbe per permettere a noi stessi di produrre?” Nessuno aveva mai posto una domanda simile, ma credo che fosse importante.

Per me, la presenza in fabbrica di Berlinguer o Fassino non rappresentava la vera soluzione. L’aspetto cruciale era l’operatività della fabbrica stessa. Se si occupa una fabbrica, bisogna farlo per renderla funzionante e continuare a produrre, non solo come gesto di protesta.

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26 ottobre 1980: il Segretario del PCI Enrico Berlinguer davanti ai cancelli della FIAT, a Torino

Ma il problema era più ampio. La fabbrica di Mirafiori non era né un ente locale né un’istituzione politica, quindi Berlinguer, come rappresentante del PCI, non poteva dire: “Abbiamo un team di tecnici e collaboratori che si occuperanno di mantenere la produzione attiva”. Il PCI aveva una visione sofisticata del potere istituzionale, ma non una comprensione diretta del potere concreto in fabbrica.

Ti faccio un esempio: il progetto di Togliattigrad. Nel 1960, Valletta firmò un accordo con l’URSS per costruire una città e una fabbrica a Togliattigrad, il cui avvio sarebbe stato in parte affidato a operai italiani specializzati. Quando alcuni di loro tornarono dalla Russia, mi raccontarono: “La fabbrica che stanno costruendo a Togliattigrad ha la stessa struttura di Mirafiori, la stessa divisione del lavoro tra istruttori ed esecutori, tra tutor e apprendisti. Quello che abbiamo qui lo stanno replicando anche lì”.

Un altro esempio riguarda il trattamento riservato ai lavoratori nelle fabbriche negli anni ’70, in particolare per quanto riguarda la progettazione dei carichi di lavoro. I cronometristi e i tecnici, che calcolavano i ritmi produttivi, si basavano su un modello di “operaio ideale, astratto”: un uomo giovane, tra i 18 e i 26 anni, di circa 1,70 m di altezza, 70 kg di peso e in perfetta forma fisica. Questa “ipotesi di uomo” era integrata negli algoritmi di lavoro e definiva le prestazioni richieste.

Era un sistema che dava per scontato che, con gli incentivi giusti, quell’operaio potesse aumentare la propria produttività fino a un terzo in più rispetto alla norma. Incentivare le prestazioni era diventato un principio centrale per chi progettava i sistemi di lavoro, ma si ignorava la realtà concreta: non tutti i lavoratori rispondevano a quel modello ideale, né per capacità fisica né per resistenza.

Io e pochi altri compagni ci rendevamo conto di questa distanza tra teoria e pratica, ma eravamo una minoranza all’interno del movimento operaio. I lavoratori più “lenti” o vulnerabili erano alla base della nostra “ipotesi di uomo” perché se ce la facevano loro, ce la facevano tutti. Come sosteneva Che Guevara nel suo libro La guerra per bande, il ritmo di una pattuglia dovrebbe essere dettato dal più lento, per evitare che i più rapidi si trovino isolati e vulnerabili. Questo principio di solidarietà per i più deboli è fondamentale anche nelle battaglie sociali.

In fabbrica, tuttavia, i tecnici spesso guardavano solo ai numeri, ignorando le difficoltà di molti lavoratori, specialmente delle operaie più anziane, spesso intorno ai 45-50 anni, che avevano difficoltà sia fisiche che psicologiche e non potevano competere fisicamente con i giovani. Soprattutto loro affrontavano un ambiente di lavoro che non teneva conto delle loro esigenze, creando un clima sempre più disumanizzante.

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Ridare dignità, rappresentanza politica e forza sociale ai lavoratori – argomenta Fausto Bertinotti – è la conditio sine qua non per interrompere una spirale regressiva in termini politici, sociali ed economici, che ha preso il via nei primi anni ‘80 del Novecento e nella quale siamo tuttora immersi.

Conclusioni

L’esperienza di Marchetto sottolinea l’importanza di percorrere una via partecipativa ai temi della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, affinché non siano un’imposizione esterna, ma il frutto di un processo di coinvolgimento dei lavoratori stessi. L’approccio partecipativo valorizza l’esperienza e il sapere pratico degli operai, elementi essenziali per sviluppare una politica di sicurezza e benessere sul lavoro che risponda davvero ai bisogni concreti delle persone. Questo modello si distanzia dalla visione tecnocratica che ignora le diversità e le sfumature della vita lavorativa quotidiana, per promuovere invece un sistema in cui ogni lavoratore sia riconosciuto come parte attiva e portatrice di reali valori e conoscenze. Tale percorso, seppur complesso, si rivela fondamentale per costruire un ambiente di lavoro più giusto, dove la dignità e la sicurezza siano sempre in primo piano. Un ambiente che non può che essere il risultato di una comunicazione autentica, bidirezionale e generativa tra le conoscenze del mondo della Scientia e i saperi del mondo dell’Usus.

Sono due, in particolare, le considerazioni di Gianni Marchetto che entrano in piena risonanza con le attività che portiamo avanti all’interno del Centro Ricerche sAu, e possono essere viste come due lati di una stessa medaglia. Da una parte il riferimento alle differenze di genere – anche in tema di carichi e prestazioni di lavoro nelle diverse fasi della vita di una donna – è uno degli assi portanti del nostro progetto “Comunicare la salute delle donne per ridefinire il concetto di cura personalizzata”, nel contesto del quale abbiamo pubblicato il volume Eva, Adamo e l’albero della conoscenza.

Dall’altra parte, le riflessioni di Gianni Marchetto sulla necessità di camminare al passo degli ultimi fanno tornare alla mente il metodo pedagogico di don Milani, su cui stiamo lavorando nel contesto del Centro Generativo “Scuole di Barbiana”. Anche secondo il priore di Barbiana, infatti, il ritmo della classe doveva essere dettato dagli ultimi, dai più lenti, e non certo dai primi della classe. Non tanto per una questione di giustizia astratta, ma perché se ne sarebbero avvantaggiati tutti, i primi così come gli ultimi.

E, per concludere, come non rivedere nelle parole di Marchetto a proposito della necessità di una rifondazione della relazione tra saperi scientifici e tecnici, da una parte, e cultura popolare e dell’uso, dall’altra, la mission stessa del Centro Ricerche “scientia Atque usus”, che della ridefinizione di questa relazione ha fatto lo scopo principale di ogni suo intervento.

Autore

Marco Sbardella

Ph.D., Ricercatore e socio fondatore del Centro Ricerche scientia Atque usus per la Comunicazione Generativa ETS. Consulente presso Lab CfGC.

Svolge ricerca negli ambiti dello sviluppo rurale, del climate change e della comunicazione sanitaria.

Intervistato

Gianni Marchetto

Nato nel basso polesine, nel 1961 si trasferisce a Rivoli (Torino). Dal 1966 lavora in FIAT e dal 1975 è funzionario sindacale per la FIOM nello stabilimento di Mirafiori. Oggi è Presidente dell’Associazione Esperienza & Mappe Grezze, che fa inchieste sui temi del welfare locale e formazione alle RLS/RSU sui problemi dell’Ambiente di lavoro e della prestazione.