Tecnologie per valorizzare il tocco umano

La scrittura collettiva. Attualità di un’utopia educativa

di Riccardo Cesari | 20 02 2024

Di cosa parliamo in questo articolo?

 

La scrittura collettiva è una delle importanti eredità della Scuola di Barbiana. In questo lavoro, seguendo l’esperienza raccontataci da Don Lorenzo Milani, illustriamo le modalità del suo funzionamento (Par. 2), le determinanti dei suoi risultati (Par. 3), la fondamentale differenza con la “scrittura collettanea” dell’Intelligenza Artificiale (Par. 4 e Appendice), l’obiettivo di efficienza, di efficacia e di verità che, secondo Don MIlani, è al fondo della scrittura collettiva (Par. 5), la sua intrinseca natura di bene pubblico (Par. 6), la sua qualità “artistica” (Par. 7) e la sfida che ancora oggi lancia alla scuola pubblica nel saper dare ai suoi piccoli e grandi protagonisti un «fine» e uno «scopo» alto, onesto e coinvolgente (Par. 8). 

Ambito di Intervento

Tecnologie per valorizzare il tocco umano

Questo articolo contribuisce alla ricerca del Centro Ricerche sAu per l’ideazione, la progettazione e la realizzazione di nuove tecnologie che facciano perno sull’intelligenza critica e la creatività umana, a partire dalla definizione di una scrittura generativa intesa come superamento delle dinamiche assemblative che troppo spesso sono alla base delle attuali tecnologie per la scrittura collaborativa.

1. Introduzione

La scrittura collettiva è una delle tante eredità della Scuola di Barbiana e del suo indomito maestro, Don Lorenzo Milani.

Come noto, la formalizzazione del metodo nasce per un suggerimento didattico di Mario Lodi, che insegnava a Vho, una frazione del Comune di Piadena in provincia di Cremona, e che nell’estate del 1963, tramite l’amico giornalista Giorgio Pecorini, aveva incontrato il Priore di Barbiana. Ne era nato uno scambio tra le due classi e un piccolo epistolario tra i piadenesi e i barbianesi.

«La ringrazio di averci proposto questa idea – scrive Don Milani a Mario Lodi il 2 novembre del 1963 – perché me ne sono trovato molto bene. Non avevo mai avuto in tanti anni di scuola una così completa e profonda occasione per studiare coi ragazzi l’arte dello scrivere. Per noi dunque tutto bene anzi sono entusiasta della cosa». (in OP2, p. 946)

Come suo solito, Don Milani studia a fondo la cosa, la mette in pratica, la struttura in fasi successive, l’analizza, la spiega, ne rivela l’intima forza creativa. 

Qualche anno dopo, sarà la tecnica, il metodo e “l’arte” artigiana utilizzata per produrre quel piccolo capolavoro che si chiama Lettera a una professoressa.

2. Come funziona la scrittura collettiva?

Nella stessa Lettera, viene illustrato in dettaglio come viene impostata la scrittura collettiva. Il tema prescelto era: “Perché vengo a scuola”. Ecco come hanno proceduto:

Primo giorno: ognuno ha un intero pomeriggio (5 ore) per scrivere liberamente ai ragazzi di Piadena una lettera sul tema scelto.

Secondo giorno: un altro pomeriggio serve per leggere ad alta voce i lavori realizzati, «appuntando su dei foglietti tutte le idee, le frasi, le espressioni particolarmente felici».

Terzo giorno: una mattinata per riordinare in ordine logico i foglietti e per stabilire lo schema del lavoro.

Quarto giorno: un pomeriggio per rifare ognuno da solo il testo seguendo lo schema fissato assieme.

Quinto giorno: un’intera giornata per leggere ad alta voce, per ciascun punto dello schema, le varie versioni. Da queste si prendono le espressioni migliori e si forma il primo testo comune, che risulta lungo 1128 parole.

Sesto giorno: un pomeriggio perché ciascuno riscriva il testo comune (su mezza pagina) e annoti (sull’altra metà) proposte di correzioni, tagli, semplificazioni, aggiunte ecc.

Settimo, ottavo e nono giorno (2 giorni e mezzo): frase per frase, si esaminano le proposte di correzione scrivendo il testo definitivo; lunghezza 823 parole (-27%).

La procedura usata per la Lettera a una professoressa (p. 126) è solo lievemente diversa, con un “primo giorno” fatto di idee sparse appuntate da ciascun ragazzo o ragazza su singoli foglietti, un’idea per foglietto.

In questa prima sperimentazione, il testo finale, pur arricchito di concetti nuovi, viene ridotto di oltre un quarto rispetto al primo testo comune, andando verso quell’ideale di perfezione “artistica” nella comunicazione che il Priore aveva da sempre considerato importante e perseguito maniacalmente, anche nei suoi scritti e che si può riassumere così (ivi):

  completare e semplificare

  cercare quel che di rilevante non si è ancora detto

  dire col minimo dei mezzi

  indovinare la reazione del lettore

  eliminare le ripetizioni, le cacofonie, gli attributi e le relative non restrittivi, i periodi troppo lunghi

  domandarsi all’infinito se un dato concetto è vero, se è nel suo giusto valore gerarchico, se è essenziale, se il destinatario avrà gli elementi per comprenderlo, se provocherà malintesi. (Lettera a Mario Lodi, 2 novembre 1963, in OP2, p. 949)

Da notare che un tale programma richiama quello di Alessandro Manzoni, “padre della lingua italiana” (De Mauro 1963, p. 46), ma certamente antitetico a quello del “figlio degenere” Carlo Emilio Gadda (1942), per il quale «non esistono il ‘troppo’ né il ‘vano’ per una lingua».

Per Don Milani, le frasi che suonano «troppo vanitose» si eliminano poiché «l’arte dello scrivere consiste nel riuscire a esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci in migliori di noi stessi». (Lettera a Mario Lodi, 2 novembre 1963, in OP2, p. 949)

Alla fine, «quello che sembra lo stile personalissimo di don Milani è solo lo stare per mesi su una frase sola togliendo via via tutto quello che si può togliere. Tutti sanno scrivere così purché lo vogliano. È solo un problema di non pigrizia». (Lettera a Giorgio Pecorini, 7 aprile 1967, in OP 2, pp. 1362-1363) poiché «l’arte è il contrario della pigrizia.» (Lettera a una professoressa, p. 127 anche in OP1).

3. Perché funziona?

Don Milani medita a fondo le motivazioni alla base del “miracolo” della scrittura collettiva e arriva a conclusioni molto convincenti (v. Cesari, 2023 a, cap. 7 e Cesari 2023 b, cap. 4).

«Spiego la cosa così: ogni ragazzo ha un numero molto limitato di vocaboli che usa e un numero molto vasto di vocaboli che intende molto bene e di cui sa valutare i pregi, ma che non gli verrebbero alla bocca facilmente. Quando si leggono ad alta voce le 25 proposte dei singoli ragazzi accade sempre che l’uno o l’altro (e non è detto che sia dei più grandi) ha per caso azzeccato un vocabolo o un giro di frase particolarmente preciso o felice. Tutti i presenti (che pure non l’avevano saputo trovare nel momento in cui scrivevano) capiscono a colpo che il vocabolo è il migliore e vogliono che sia adottato nel testo unificato. Ecco perché il testo ha acquistato quell’andatura e quel rigore di adulto (direi anche di adulto che misura le parole! animale purtroppo molto raro). Il testo è cioè al livello culturale dell’orecchio di questi ragazzi, non al livello della loro penna o della loro bocca». (Lettera a Mario Lodi, 2 novembre 1963, in OP2, p. 947; corsivi nell’originale).

Progetto

Centro Generativo “Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana”

Un Centro di Documentazione e Comunicazione Generativa per sostenere e mettere in relazione tra loro tutti quei soggetti – individuali e collettivi – che sono impegnati a ripensare concretamente il concetto di attualizzazione e a praticare oggi, nei contesti più vari, i valori e i principi “milaniani”. Dalla scuola all’associazionismo, dal mondo del lavoro a quello della ricerca, il Centro Generativo è l’ambiente di comunicazione a disposizione di chi opera nelle tante ‘Barbiane’ di oggi.

 

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In un incontro con gli studenti di una scuola di giornalismo, a fine ’65, Don Milani è ancora più dettagliato:

«I ragazzi che hanno saputo scrivere male sono però capaci di giudicare a un livello maggiore di come sanno scrivere. Ognuno di noi è miglior giudice che non sia buon scrittore. Un ragazzetto di 16 anni di questa scuola [intende] sulle 50 mila parole d’italiano. Probabilmente, quello che scrive di più, scrive con 2 o 3 mila [parole], sicché c’è un divario spaventoso fra le parole che uno possiede fino al punto di adoprarle e le parole che uno possiede fino al punto di giudicarle molto bene anche nelle sfumature». (“Strumenti e condizionamenti dell’informazione”, in OP1, p. 1329).

Una semplice illustrazione grafica può aiutare a capire. Usando un petalo per rappresentare l’insieme delle parole che un ragazzo “intende” (di cui una parte usa e una ancora più piccola scrive, in rapporto di circa 1 a 20; Fig. 1), il collettivo dei ragazzi si trova a “gestire” un insieme di parole che è un multiplo di quelle che il singolo intende, ed è tanto più ampio quanto più numerosi (entro certi limiti) sono i ragazzi (Fig. 2).

Infatti, quello che uno intende (orecchio) diventa patrimonio comune degli altri sia come parola (bocca) sia come scrittura (penna). L’insieme dei termini gestiti a tutti i livelli diventa maggiore della somma delle singole parti per via di questa “contaminazione comunicativa” che mette in relazione, come vasi comunicanti, i diversi canali di espressione dei partecipanti. Il testo finale, come notava il Priore, pur essendo scritto, ha l’estensione delle cose udite.

FIG. 1 L’insieme dei vocaboli che un ragazzo intende
FIG. 1 L’insieme dei vocaboli che un ragazzo intende
FIG. 2 L’insieme dei vocaboli che un gruppo di 8 ragazzi intende
FIG. 2 L’insieme dei vocaboli che un gruppo di 8 ragazzi intende

4. Scrittura collettiva e scrittura artificiale

In un’epoca di Intelligenza Artificiale (IA) e di ChatGPT, ci si può chiedere a che serve la scrittura collettiva. Se voglio un testo “collettivo” in massimo grado, costruito a partire dalla massa abnorme di testi disponibili nell’universo della rete internet, è sufficiente chiederlo all’intelligenza artificiale: «fammi un testo sulla scrittura collettiva di non più di 20 mila caratteri spazi inclusi, suddiviso in paragrafi». Il risultato è in Appendice. Questa scrittura artificiale (vogliamo chiamarla “scrittura collettanea”?) è anni luce lontana dalla scrittura collettiva come la concepiva la Scuola di Barbiana. Al di là della perfezione formale dell’elaborato, questo non contiene nessuna idea nuova, nessuno scambio comunicativo, nessuna cooperazione esplicita e consapevole tra persone diverse. Si tratta di una produzione senza alcuna valenza educativa. Se voglio diventare pasticcere, non devo comperare vassoi di pasticcini in pasticceria ma devo frequentare il suo laboratorio, dove cioè si produce, non dove si consuma. L’Intelligenza Artificiale, al contrario, ci tiene lontani dai luoghi della produzione per chiuderci nell’immensa prigione del consumo, dove l’intelligenza naturale deperisce e langue.

5. A cosa serve la scrittura collettiva?

Per Don Milani la scrittura collettiva ha un obiettivo non di poco conto poiché serve a cercare la verità, quella con la v minuscola ma pur sempre la verità: messi tutti i foglietti sul tavolo, tolte le ripetizioni, riordinati in sequenza, finalmente se ne trova la logica e «si scopre contemporaneamente e il modo di espressione più efficace e la verità stessa», con una “tecnica di purificazione” in cui la ricerca della forma aiuta a trovare la sostanza.  

In modo non molto diverso, nel 1832 anche Giacomo Leopardi (1832, p. 139) aveva ammonito, nello Zibaldone, a cercare l’attenzione e la meditazione del lettore non «collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe contenere in una sola pagina» ma con un’arte tutta diversa il cui fine «non è mica l’arte, ma la natura e il sommo dell’arte è la naturalezza e il nasconder l’arte».

“La verità? – sembra di sentire Pilato (Gv, 18,38) – Che cos’è la verità?”.  Ma il Priore sembra averne un’idea precisa. Se volessimo risalire alle nobili origini del problema si dovrebbe perlomeno richiamare il Menone di Platone, in cui Socrate, con la sua insuperabile arte maieutica, incalza un giovane schiavo a risolvere un problema di geometria: dato un quadrato, trovare quello con area doppia. Rispondendo a Socrate, lo schiavo ignorante trova, un po’ alla volta, la verità, cioè la soluzione (la diagonale del quadrato di partenza). Socrate mostra così la natura sofistica (“euristica”) del paradosso di Menone, il quale voleva dimostrare l’impossibilità di una vera ricerca della verità: come si può cercare ciò che si ignora? Infatti, ciò che non si sa, non si può neppure cercare: «Se anche l’imbrocchi, come farai a sapere che è proprio quello che cercavi, se non lo conoscevi?» (Platone, 378 a. C., 80D).

La scrittura collettiva sembra avere i caratteri dell’arte maieutica, sfruttando, nell’interazione di gruppo, le reminiscenze che ciascuno ha (come una sorta di anamnesi platonica) di un bagaglio di conoscenze tacite, inespresse e inesprimibili, ma ugualmente presenti e assai più ampie delle conoscenze codificate. Per usare un’immagine proveniente da tutt’altro campo, è come il risultato di una simulazione Monte Carlo (un algoritmo computazionale che utilizza una campionatura casuale ripetuta per ottenere la probabilità del verificarsi di un intervallo di risultati) di un processo aleatorio le cui caratteristiche (a partire da alcuni limitati dati di partenza) diventano note solo dalla ripetizione numerosa (e quanto più numerosa) delle sue possibili realizzazioni.

Michael Polanyi (1966, p. 20) ha ripreso proprio questa tematica fondando la sua teoria della conoscenza tacita, come quella, per usare un suo esempio, che ci consente di (ri)conoscere una faccia tra mille senza saperla descrivere e tanto meno dire come e perché la (ri)conosciamo; analogamente, egli dice, funziona la capacità diagnostica o la stessa abilità artistica, atletica o tecnica. Di qui la sua osservazione sul fatto che «possiamo conoscere più di quanto possiamo esprimere» nonché la sua indicazione del processo di formazione-integrazione come «grande e indispensabile potere tacito grazie al quale ogni conoscenza è scoperta e, una volta scoperta, mantenuta come vera». A supporto di questa concezione, di cui riconosce un debito nella psicologia della forma (gestalt) e della percezione subliminale (subcezione), Polanyi (ivi, p. 42) cita sia la persuasione occulta come esempio in cui viene colta la relazione tra due eventi noti, di cui uno in modo tacito, sia l’ampia letteratura suscitata dai risultati dell’esperimento di McCleary e Lazarus (1949) in cui risposte reattive (corporee) sono innescate da stimoli visivi trasmessi a tale velocità da non essere esprimibili in termini di conoscenza verbale. La dimostrazione di Don Milani sulla capacità della scrittura collettiva di creare un nucleo di verità esplicita dall’interazione di numerose conoscenze tacite e intuitive, con un effetto leva proporzionale al numero di partecipanti, potrebbe stare a buon diritto tra gli esempi più brillanti (e anticipatori) della teoria di Polanyi. In particolare, trattandosi di un lavoro collettivo di stimolazione reciproca delle conoscenze tacite di ciascuno, la conoscenza che ciascuno si ritrova alla fine risulta arricchita da quella degli altri con beneficio di tutti e senza perdite per nessuno, secondo la classica definizione di bene pubblico.

Gli altri contributi dell’Ambito

Dalla “correzione” alla “collaborazione”.
Origine ed evoluzione dei Centri di scrittura

L’Articolo affronta il tema dei Centri di scrittura da una prospettiva storica, volta ad approfondire la loro origine ed evoluzione nel tempo, fino alla definizione di un nuovo status e ruolo nella contemporaneità, in contrasto con un immaginario collettivo ancora legato al ‘vecchio’ paradigma di metodo e approccio pedagogico diffusosi negli anni ‘50-’60 del Novecento.

6. La scrittura collettiva come bene pubblico

Nella scrittura collettiva l’aspetto cooperativo è fondamentale. Senza di esso si otterrebbe qualcosa di simile a quel gioco di gruppo inventato dai surrealisti francesi negli anni Venti (Breton, Éluard e altri) in cui ciascun giocatore aggiunge, in modo sequenziale, su un foglio via via ripiegato, un nome, un verbo o un aggettivo senza conoscere i contributi precedenti. La prima volta venne fuori “Il cadavere squisito berrà il vino novello” per cui il gioco fu chiamato “cadaveri squisiti”. Da allora a oggi, molti casi di scrittura collettiva, per lo più in ambito letterario, sono stati proposti, in varie epoche e in molti Paesi: dal Gruppo futurista dei Dieci, creato nel 1928, ai Wu Ming (“senza nome”) e oltre. Molti, compresa Wikipedia, continuano, a tutt’oggi, a ignorare che il primo vero esempio di scrittura collettiva, di stampo fortemente collaborativo, è stato impostato, realizzato e “codificato” nella scuola di Barbiana. Naturalmente, non è certo un problema di copyright. L’ideologia comunitaria alla base della scrittura collettiva la rende sintonica con una gestione aperta dei testi e dei metodi, con “permessi d’autore” (copyleft e all rights reversed, sic!) invece di “diritti d’autore” (copyright e all right reserved). 

Tali licenze, diffusesi anche in ambito informatico con riferimento alla scrittura del codice (open source), sono dette anche Creative Commons, e sono in genere a metà strada tra la riserva di tutti i diritti e il pubblico dominio. Si noti che la scrittura collettiva è un esempio di attività collaborativa e dunque di azione collettiva in cui la conoscenza dei singoli, messa a fattor comune, diventa una risorsa condivisa che supera le questioni legate ai diritti di proprietà.

7. La scrittura collettiva è “arte”?

Per Don Milani l’arte, in particolare l’arte della scrittura, è artigianato – “il contrario della pigrizia” – una tecnica sofisticata di (ri)produzione della verità, per la quale «non occorre né genio né personalità perché ci sono regole oggettive che valgono per tutti e per sempre e l’opera è tanto più arte quanto più le segue e s’avvicina al vero». (Lettera a Giorgio Pecorini, 7 aprile 1967, in OP2, p. 1363)

La sua è certamente una definizione molto peculiare, con quell’“ossimoro” tra arte e regole oggettive (Battelli, 2019), ma riflette una convinzione radicata. In Lettera a una professoressa (p. 132) c’è anche un’altra definizione sorprendente di arte (della scrittura): «L’arte è voler male a qualcuno o a qualcosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi». Un odio che ha dentro una verità che contiene una forma d’amore.

Pasolini, che di scrittura se ne intendeva, l’aveva considerata addirittura «una delle definizioni della letteratura più belle che io abbia mai letto». Chiaramente, per Don Milani l’arte non ha a che fare col bello, ma con l’efficace. Tuttavia, prima ancora ha a che fare con la verità, quasi per obbligo di fede: «C’è un comandamento, non dire falsa testimonianza» (Fallaci, 1974, p. 293). «Se riuscissi a sapere quali sono le parole e le frasi del libro [Esperienze pastorali] che sono belle e non leali o non giuste vorrei sciupacchiarle apposta.» (Lettera a Raffaele Bensi, 13 giugno 1956, in OP2, p. 449).

La realtà, che è verità, sa produrre efficacia. Infatti, «perché [un testo] abbia efficacia sul nostro ambiente pretesco occorre che sia infarcito totalmente di crude osservazioni o dialoghi o situazioni reali. Così crude e così reali da destare una simpatia così forte da far ammettere anche i più irrazionali e rivoluzionari principii» (Lettera a Bruno Borghi, 13 dicembre 1951, in OP2, p. 225 corsivo nell’originale). Dunque tecnica artigianale rispettosa della verità, per «trovare un cunicolo segreto sotterraneo sentimentale psicologico abbastanza da penetrare nella roccaforte del timore dell’eresia della prudenza ecc., senza che si déstino le sentinelle che i preti in genere portano dentro di sé» (Lettera a Gian Paolo Meucci, 3 febbraio 1954, in OP2, p. 294).

Dov’è l’arte in tutto ciò? C’è un modo abbastanza convincente per rispondere a questa domanda. Scrive Paolo Nori (2019): «Secondo Viktor Šklovskij [L’arte come procedimento, 1917], per risuscitare la nostra percezione della vita, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra, esiste questa cosa che noi chiamiamo arte. Il fine dell’arte è di darci una sensazione della cosa, sensazione che deve essere visione, e non solo riconoscimento». L’arte «fa scoprire l’oggetto» come se fosse visto «per la prima volta», su un nuovo e diverso piano di valori, rendendo «estraneo l’abituale» dopo aver spezzato la catena delle consuete associazioni mentali. Questa “prospettiva Šklovskij” può aiutare a capire perché la lingua di Don Milani e la sua scrittura collettiva sono una forma di arte. Infatti, con la sua attenzione al “levare”, al “concentrare”, al risparmiare tempo e spazio, egli ha certamente una visione “economica” della letteratura e dello stile, inteso come lo strumento per dire «il maggior numero di cose col minor numero di parole», risparmiando «un massimo di energia percettiva». Nello stesso tempo, tuttavia, il suo uso delle parole, incluso il turpiloquio, riesce a svegliarci dal torpore e dall’automatismo dei processi comunicativi e a «risuscitare la nostra percezione della vita», provocando quello che i teorici hanno chiamato “straniamento”. «Quando sentiamo dire ‘sole’ in poesia – cito ancora Nori (ivi, p. 40) – ci viene caldo. Nella lingua ordinaria, invece, le cose di cui parliamo, anche il sole, ci passano davanti come avvolte in un involucro. Come se fossero imballate; sappiamo che esistono, che occupano spazio, ma ne vediamo solo la superficie» e non ci riscaldano. La prosa di una scrittura collettiva come quella della Lettera a una professoressa, non solo ci fa «guardare agli oggetti [e alle relazioni] come se fosse la prima volta che li si vede» (Nori 2008, p. 192), ma addirittura – con l’estremo straniamento tipico degli analfabeti – si usano le parole «come se fossero usate per la prima volta nella storia» (Lettera a Gian Paolo Meucci, 2 marzo 1955, in OP2, p. 351), si creano immagini potenti e si lascia il lettore senza la rete protettiva del riconoscimento, della prevedibilità, dell’automatismo e della consuetudine. In questo senso, con la scrittura collettiva si fa opera d’arte in massimo grado.

8. Utopia o realtà?

Torniamo all’esempio di scrittura collettiva raccontato dal Priore nel 1963. Durò 9 giorni, o meglio 12 mezze giornate, per un totale di circa 60 ore. Sessanta ore per fare un tema! (diranno i miei piccoli lettori…). Sono tempi del tutto incompatibili con la nostra scuola, dove ci sono programmi da svolgere, orari da rispettare, “schedulazioni” prestabilite ….. voti da assegnare.

La scrittura collettiva, non a caso, è agli antipodi della scuola meritocratica.

Per i critici aprioristici, senza se e senza ma, la scrittura collettiva è, nel migliore dei casi, una suggestione collettiva, nel peggiore, una truffa. Secondo la loro ideologia individualista, il prodotto di un collettivo (che potremmo anche chiamare, più semplicemente, un gruppo di lavoro) che metta a fattor comune le abilità di tutti («da ciascuno secondo le sue capacità») e non consenta l’individuazione di meriti e demeriti individuali, è tecnicamente impossibile ed eticamente disdicevole. All’opposto, secondo l’ideologia collettivista, la scrittura collettiva è il prodotto perfetto di una società di eguali, tutti egualmente partecipanti, tutti egualmente responsabili, che beneficiano in proporzione alle loro carenze («a ciascuno secondo i suoi bisogni»).  Ma se si potesse uscire dallo scontro ideologico, la si potrebbe valutare come un modo alternativo, innovativo, per studiare i confini, personali e collettivi, dell’arte dello scrivere.

Se ci fosse un po’ di coraggio, si potrebbe pensare che l’irrefrenabile istinto valutativo, qualche volta, potrebbe fare posto a un momento cooperativo in cui provare a imparare anche senza l’incentivo/minaccia del premio e della sanzione dato che tutti sono coinvolti, tutti partecipano e tutti contribuiscono verso un «fine» alto, onesto, un po’ più grande del solito tornaconto individuale (Lettera a una professoressa, p. 93).

A scuola non dovrebbe essere difficile provarci, poiché, come ha scritto ironicamente Michael Young (1958, p. 89), «tutti i bambini manifestano un istinto socialista, e alcuni di loro non superano mai questa fase».

«Ma che ne sarà dei bravi?» si chiedono le vestali della meritocrazia h24. La risposta l’ha data Adele Corradi (2012, p. 162), la professoressa di italiano che ha condiviso la vita della Scuola di Barbiana dalla fine del 1963 in poi: a Barbiana essere bravi non era né un merito né un vanto ma un compito, un darsi da fare, un mettere i propri talenti a disposizione degli ultimi, senza avarizia, per «sortirne tutti insieme», non uno sopra l’altro (secondo i principi della meritocrazia) o uno contro l’altro (secondo le regole della competizione). Così, anche la scrittura collettiva potrebbe diventare un modo per far crescere anche i più bravi su un terreno dove c’è sempre molto da imparare, nel campo della solidarietà, della comunità, della fraternità, che è pur sempre il terzo principio, un po’ trascurato, della rivoluzione borghese del 1789.

Appendice (da ChatGPT 3.5)

La Scrittura Collettiva: Un’Esplorazione nella Creatività Condivisa

 

1. Introduzione

La scrittura collettiva è un’arte che unisce le menti, le prospettive e le esperienze di più individui in un’unica narrazione. Attraverso questo processo collaborativo, si creano opere che riflettono la complessità e la ricchezza della diversità umana. In questo testo, esploreremo le sfide, i benefici e le varie forme di scrittura collettiva, oltre a esaminare alcune delle opere più significative nate da questo processo.

2. Origini e Storia della Scrittura Collettiva

La scrittura collettiva ha radici antiche, risalenti alle forme primordiali di narrazione orale. Le società ancestrali spesso ricorrevano alla collaborazione per tramandare le storie, permettendo così alle generazioni successive di arricchirle e adattarle alle loro esperienze. Con lo sviluppo della scrittura, questa pratica si è evoluta in forme più strutturate, come i miti, le leggende e le epopee, spesso lavorate da più autori nel corso del tempo. Tuttavia, è nell’epoca moderna che la scrittura collettiva ha raggiunto la sua massima espressione. Movimenti letterari come il surrealismo e il dadaismo hanno abbracciato la collaborazione come principio fondamentale, incoraggiando gli scrittori a esplorare nuove forme di espressione attraverso l’interazione e il confronto creativo. Opere come il “Cadavre Exquis” sono diventate simboli di questa pratica, in cui ciascun autore contribuisce a una narrazione senza conoscere il contributo degli altri, creando così un risultato sorprendente e spesso surreale.

3. Le Sfide della Scrittura Collettiva

Nonostante i suoi numerosi vantaggi, la scrittura collettiva presenta anche delle sfide uniche. Una delle principali è la necessità di coordinare le idee e gli stili di scrittura di diversi autori in un’unica opera coerente. Questo richiede una comunicazione efficace, una chiara comprensione degli obiettivi condivisi e una grande flessibilità da parte di tutti i partecipanti. Inoltre, la scrittura collettiva può essere soggetta a conflitti creativi, in cui le divergenze di visione o di approccio possono emergere e compromettere il processo collaborativo. Tuttavia, è proprio attraverso la gestione di questi conflitti che si può raggiungere una maggiore ricchezza e complessità nell’opera finale, integrando le diverse prospettive in un’unica voce autentica.

4. I Benefici della Scrittura Collettiva

Nonostante le sfide, la scrittura collettiva offre numerosi benefici sia agli autori che ai lettori. Per gli scrittori, è un’opportunità per sperimentare nuove idee, esplorare nuovi stili e imparare dagli altri membri del gruppo. Inoltre, lavorare con altri può fornire un sostegno emotivo e motivazionale prezioso durante il processo creativo. Per i lettori, le opere scritte collettivamente offrono spesso una prospettiva più ampia e diversificata su un determinato argomento o tema. La combinazione di voci e punti di vista può arricchire notevolmente l’esperienza di lettura, offrendo nuove angolazioni e interpretazioni che altrimenti potrebbero essere rimaste inesplorate.

5. Forme Contemporanee di Scrittura Collettiva

Nell’era digitale, la scrittura collettiva ha assunto nuove forme e dimensioni. Piattaforme online come i blog collaborativi, i forum di scrittura e i progetti di scrittura crowdsourced consentono a scrittori provenienti da tutto il mondo di collaborare e creare opere condivise. Queste piattaforme offrono un’ampia gamma di opportunità creative, consentendo agli autori di connettersi, condividere idee e costruire comunità di scrittura online. Inoltre, la scrittura collettiva ha trovato espressione anche in forme più tradizionali, come gli [sic] antologie di racconti o poesie, in cui diversi autori contribuiscono con le proprie opere per creare una collezione unica e diversificata. Queste antologie spesso rappresentano una varietà di voci e stili, offrendo agli autori l’opportunità di condividere le proprie opere con un pubblico più ampio.

6. Conclusioni

La scrittura collettiva è una pratica intrinsecamente umana che riflette la nostra natura sociale e collaborativa. Attraverso questo processo, gli autori possono unire le proprie voci e prospettive per creare opere che vanno oltre le capacità di un singolo individuo. Sebbene possa essere soggetta a sfide e conflitti, la scrittura collettiva offre numerosi benefici creativi, sia agli autori che ai lettori, e continua a prosperare in varie forme e contesti nella società contemporanea.

Bibliografia/Sitografia

  • Battelli, G. (2019), Della finalità ‘politica’ dello scrivere in don Milani: tra strumentazione alto-borghese, scelta religiosa e lotta sociale, Quaderni di didattica della scrittura, 31, 1, pp. 27-47
  • Cesari, R. (2023 a), Hai nascosto queste cose ai sapienti. Don Lorenzo Milani, vita e parole per spiriti liberi, Giunti
  • Cesari, R. (2023 b), Don Lorenzo Milani. Preconcetti, calunnie e distorsioni, Marietti1820
  • Corradi, A. (2012), Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, 2a ed. 2017
  • De Mauro, T. (1963), Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, 2° ed 1970
  • Fallaci, N. (1974), Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Milano Libri, 2° ed. 1977
  • Gadda, C. E. (1942), Lingua letteraria e lingua d’uso, in La ruota, 3, 3-4, pp. 35-39 (online: www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources.php ).
  • Leopardi, G. (1832), Zibaldone, ora in L’arte dello scrivere. Pensieri sull’alfabeto, la scrittura e lo stile, a cura di Gino Zaccaria, Christian Marinotti Edizioni, 2004
  • McCleary, R. A. e Lazarus, R. S. (1949), Autonomic discrimination without awareness. An interim report, in Journal of Personality, 18, 2, dicembre, pp. 171-179.
  • Milani, L. Tutte le opere, ed. critica nazionale promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali, diretta da (e con introduzione di) Alberto Melloni, a cura di Federico Ruozzi, e di Anna Carfora, Valentina Oldano, Sergio Tanzarella, Mondadori, 2017, Tomo 1 (OP1) e Tomo 2 (OP2)
  • Nori, P. (2008), Pubblici discorsi, Quodlibet.
  • Nori, P. (2019), I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa. 1820-1991, Utet.
  • Platone (378 a. C.), Menone, trad. it. di Giovanni Reale, Bompiani, 2017
  • Polanyi, M. (1966), The tacit dimension, The University of Chicago Press, trad. it. di Franco Voltaggio, La conoscenza inespressa, Armando, 2018
  • Young, M. (1958), The rise of meritocracy 1870-2033. An essay on education and equality, Thames and Hudson, trad. it. di Cesare Mannucci, L’avvento della meritocrazia: 1870-2033, Edizioni di Comunità, 2014

Autore

Riccardo Cesari

Professore Ordinario di Metodi Matematici per l’Economia e le Scienze Attuariali e Finanziarie dell’Università di Bologna e D.Phil dell’Università di Oxford. Ha lavorato in Banca d’Italia a Roma, Bologna e Trieste. Sulla figura di don Milani ha scritto Hai nascosto queste cose ai sapienti. Don Lorenzo Milani, vita e parole per spiriti liberi (2023) e Don Lorenzo Milani. Preconcetti, calunnie e distorsioni (2023).