Salute e sanità
di Eugenio Pandolfini | 11 09 2023
Di cosa parliamo in questo articolo?
In un suo recente intervento durante il convegno finale del progetto PRIN – Migrant Children Participation and Identity Construction in Education and Healthcare, Lucia Miligi ha presentato alcune esperienze di ricerca/intervento di ambito epidemiologico condotte dall’Istituto per lo Studio, la Prevenzione e la Rete Oncologica (ISPRO) della Regione Toscana.
Miligi ha coordinato importanti indagini sulla salute dei bambini e sugli inquinanti fisici e chimici nelle scuole, perseguendo un modello inclusivo di ricerca. Una ricerca condivisa ‘con le persone’, orientata al coinvolgimento dei bambini e delle famiglie come soggetti attivi, che ha dato frutti concreti e che supera la tendenza alla standardizzazione scommettendo su un’idea di scienza e di salute come beni comuni, da costruire insieme giorno per giorno.
Ambito di Intervento
INTRODUZIONE
In un contesto europeo e globale in cui l’incidenza dei tumori infantili e adolescenziali è in aumento, i risultati degli studi epidemiologici condotti negli ultimi anni mostrano quanto ancora si presti troppa poca attenzione alla loro correlazione con i fattori ambientali, che invece potrebbero esserne la causa.
Lucia Miligi ha impostato il suo intervento presso il convegno finale del progetto Migrant Children Participation and Identity Construction in Education and Healthcare (PRIN 2017) – svoltosi a Modena il 7 luglio 2023 – proprio sul ruolo del ricercatore epidemiologo, sulla sua responsabilità e sull’importanza – per il suo lavoro – di coinvolgere bambini, famiglie e portatori d’interesse diversificati nelle attività di ricerca sui territori.
Dove si deve fermare il senso di responsabilità che impone al ricercatore di intervenire in caso di dati significativi raccolti sul campo?
Come rendere i risultati della propria ricerca immediatamente e concretamente spendibili per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni e ridurre il rischio di contrarre pericolose malattie?
Come avvicinarsi a bambini e ragazzi malati cronici per raccogliere preziose informazioni sulla loro esposizione a fattori di rischio ambientale?
Esistono modalità di coinvolgimento che migliorano i risultati della ricerca, che aiutano i ricercatori a svolgere meglio il proprio lavoro e forniscono un supporto per le famiglie che devono affrontare situazioni difficili legate alla salute dei propri figli?
La risposta è nella comunicazione
La comunicazione è centrale nei progetti di cui parla Miligi, come lo studio SETIL, che prende in esame l’associazione tra leucemie infantili e campi elettromagnetici a bassa frequenza o lo studio Mobikids, che indaga la relazione tra i campi a radiofrequenza (cellulari) e il rischio di tumori cerebrali.
Tutte ricerche che si basano su interviste fatte ai genitori di figli malati o, a volte, direttamente ai ragazzi, oltre che sulle misurazioni di alcune esposizioni a fattori di rischio (campi elettromagnetici, inquinamento dell’aria, dell’acqua, etc.) nei luoghi frequentati dai più giovani come le scuole o le case dove abitano insieme ai genitori.
Parlando delle interviste e delle misurazioni con le quali un epidemiologo indaga la corrispondenza tra una specifica malattia e i fattori di rischio presenti – per esempio – dentro la casa stessa del bambino o del ragazzo malato, Miligi ci parla di quanto tali attività possano essere invasive: «Un’intervista di questo tipo ha delle implicazioni per i soggetti coinvolti, ed è una responsabilità per il ricercatore. Tutte le ricerche possono avere ricadute inaspettate e problematiche, e devono essere gestite con attenzione. Nelle persone che intervistiamo possono insorgere dubbi o timori semplicemente rispondendo alle domande. Per non parlare delle misurazioni, che possono mettere in luce situazioni anomale, come ad esempio esposizioni superiori ai limiti di legge per alcuni fattori o per alcuni inquinanti».
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Una comunicazione che ascolta, coinvolge e legittima
Dalle parole di Miligi si capisce che, prima di tutto, si tratta di una comunicazione con la propria coscienza, per mantenere viva la consapevolezza della complessità dei sistemi con i quali questo tipo di ricerca si confronta; dell’imprevedibilità delle conseguenze che ogni tipo di azione può avere quando si lavora con l’incertezza e con il rischio, in un mondo che pretende – al contrario – certezze, dati oggettivi, neutri, rassicuranti. E dell’impatto che simili questioni possono avere sui non-addetti ai lavori.
In seconda battuta la comunicazione deve aprirsi agli altri, e avviare – o rafforzare – un dialogo tra ricercatori, non addetti ai lavori e portatori d’interesse. Deve coinvolgere direttamente cittadine e cittadini nella ricerca epidemiologica, per garantire lo sviluppo di conoscenze e la comprensione dei risultati di studi e indagini. Deve avvicinare gli scienziati, i ricercatori, alle persone che intervistano, riconoscendo loro un ruolo attivo, legittimando i dubbi, le paure e aprendosi a rispondere in maniera chiara e diretta alle domande, anche quelle alle quali è più difficile rispondere. E deve avviare percorsi di sensibilizzazione e costruzione di competenze condivise con i rappresentanti di istituzioni e di altri enti che si occupano di ricerca, per costruire comunità di interessi orientate alla formulazione di ipotesi, alla sperimentazione di soluzioni, alla risposta partecipata alle criticità.
Dalla teoria alla pratica
Il caso dello studio SETIL è paradigmatico. Miligi racconta che «svolgendo le nostre attività di ricerca a casa di una delle famiglie che partecipavano allo studio ci siamo accorti che il campo elettromagnetico era molto elevato. Per fortuna il rapporto tra intervistatore e famiglia si era strutturato nel tempo ed era molto buono, e i genitori – che oltre a un figlio malato di leucemia avevano un altro figlio piccolo – hanno espresso la loro preoccupazione per una situazione che non avevano i mezzi per gestire. In questo caso il ricercatore ha riportato il caso al gruppo di ricerca, ed è stato deciso di non lasciare questi genitori a loro stessi: abbiamo attivato una collaborazione con l’Agenzia Regionale di Protezione Ambientale per verificare e approfondire la nostra misurazione. La lettura è stata confermata ma, fortunatamente, è stata individuata anche la causa, che consisteva nella cattiva realizzazione dell’impianto elettrico della casa. Un problema gestibile, quindi, che è stato possibile affrontare e risolvere in tempi brevi».
Un esempio di comunicazione tra mondo della ricerca, istituzioni e cittadini che parte da un ascolto attivo e prosegue con l’analisi di un bisogno di informazione, da un approccio basato su umanità ed empatia, dal riconoscimento di un ruolo attivo di persone le cui paure – paura di vivere in un ambiente “tossico”, di non star facendo abbastanza per i propri figli – sono accolte, comprese, prese in carico, risolte.
Quella di cui parla Miligi è una comunicazione intesa come comune-azione, come azione collettiva di soggetti che normalmente non dialogano tra loro ma che – mettendo insieme le proprie conoscenze e competenze con continuità e trasparenza – cercano di affrontare specifici problemi a partire dalla costruzione di un terreno comune.
Multimedia
Non mancano le collaborazioni con i medici – «è stata molto importante la collaborazione con i pediatri oncologi, per individuare il momento migliore per intervenire e svolgere le interviste con i genitori e i figli malati durante il periodo di remissione delle diverse malattie» – che portano informazioni fondamentali per il buon svolgimento delle attività sul campo.
Altre collaborazioni avviate da Miligi e i suoi colleghi riguardano importanti istituzioni, come per le misurazioni dei livelli di benzene nelle scuole: per queste sono stati coinvolti direttamente i bambini e i ragazzi, equipaggiati con uno speciale strumento di misurazione (radiello) per registrare le informazioni ambientali. In questo caso è stato l’Istituto Superiore di Sanità a collaborare al progetto,affiancando ISPRO nelle attività di coinvolgimento dei “ricercatori in erba”. Sono stati prodotti materiali in-formativi «presentando lo studio in maniera trasparente e responsabilizzando, oltre agli insegnanti, i bambini e i ragazzi, descrivendo loro il “ciondolo speciale” che serve per misurare quanto benzene c’è nell’aria, e chiedendo l’aiuto non solo dei giovani selezionati per le misurazione, ma anche degli altri studenti, per il corretto utilizzo dei radielli. È stata scelta la storia di Giovannino Perdigiorno di Gianni Rodari per interessare i bambini più piccoli, e attraverso questi strumenti sono state date indicazioni chiare e comprensibili su come utilizzare questo strumento di misurazione molto delicato».
Conclusioni
Le parole di Lucia Miligi raccontano esperienze di ricerca e di comunicazione dei loro risultati basate su:
- la presa in carico, da parte degli epidemiologi, di una precisa responsabilità nei confronti del proprio (complesso) ambito d’indagine e di tutti quei soggetti che ne fanno parte;
- l’implementazione di modelli di comunicazione della scienza orientati a valorizzare il ruolo pro-attivo delle persone – bambini, ragazzi, genitori – attraverso specifici percorsi di informazione e di condivisione;
- il coinvolgimento non solo dei soggetti individuati per gli studi ma anche, e soprattutto, di comunità di portatori d’interesse ampie e variegate (costituite da medici, ricercatori di altre istituzioni, insegnanti, etc.).
Dalle esperienze presentate emerge chiaramente come la comunicazione che favorisce la condivisione di conoscenza – orientando la ricerca verso interventi concreti e determinando cambiamenti nei comportamenti delle persone _ non sia quella che relega bambini, ragazzi, genitori al ruolo passivo di soggetti-target ma, piuttosto, quella che mette insieme la centralità dell’ascolto, la cultura della domanda e il dovere di risposta. E soprattutto: il riconoscimento di un ruolo per tutti coloro che partecipano alla ricerca. Per il mondo degli adulti ma anche – e soprattutto – per i bambini e i ragazzi. Legittimare i dubbi e le paure favorisce il dialogo, ricostruisce contesti di fiducia tra mondo della ricerca, la politica e la cittadinanza. E può contribuire ad avvicinare i cittadini a queste questioni anche se sono molto giovani.
Anche in contesti relativi a patologie multifattoriali, in cui il contenuto della ricerca non è un dato ma una percentuale di rischio, quando comunicare è difficile e l’intervento sul campo assume contorni sfumati a causa della complessità dell’ambito d’intervento, la migliore strategia di comunicazione è quella che mette gli attori in campo (i ricercatori e le comunità con cui lavorano) nella condizione di affrontare le questioni più complesse da punti di vista diversi. Un percorso che si basa sul dialogo e sul coinvolgimento di soggetti individuali o collettivi spesso anche molto distanti tra loro, ma comunque in possesso di conoscenze indispensabili al buon esito dell’intervento. Superando la tendenza ad una persuasione in modalità top-down per promuovere la co-costruzione di soluzioni condivise dal basso che contribuiscono a diffondere una nuova consapevolezza tra tutti i soggetti coinvolti.
- Miligi, L. et al. (2005), Case control studies: implications for the participants and responbilities of the researchers, Epidemiologia e prevenzione – link
- Sadetzky et al. (2014), The MOBI-Kids Study Protocol: Challenges in Assessing Childhood and Adolescent Exposure to Electromagnetic Fields from Wireless Telecommunication Technologies and Possible Association with Brain Tumor Risk, Front Public Health – link
- G Castaño-Vinyals, G. et al. (2022), Wireless phone use in childhood and adolescence and neuroepithelial brain tumours: Results from the international MOBI-Kids study, Environ Int. – link
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Autore
Eugenio Pandolfini
Ph.D., Ricercatore e socio fondatore del Centro Ricerche “scientia Atque usus” per la Comunicazione Generativa ETS. Ricercatore a tempo Determinato di tipo A del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze
Intervistato
Lucia Miligi